ore 10.30. la vetrina di uno studio. Suono. Mi apre la porta. È lei, sempre lei, con quel suo viso intenso, donna capace di entrarti dentro con un silenzio o con una risata che scoppia all’improvviso come solo i bambini sanno fare. Un abbraccio.
Non vedo Maura da forse 20 anni, i miei ricordi si mescolano veloci tra le notti all’Imbarco Perosino e le parole dette e quelle che si perdono nella musica, si spalmano sui muri e sui tavoli pieni di foto, di pacchi e pezzi imballati. La musica classica fa apparire Maura che parla al telefono come una figura lontana, d’altri tempi, eppure vicina e presente.
Mi prende sotto braccio e mi porta nel suo caffè preferito, non un bistrot shabby chic come tanti, in un vero bar, che non sembra essere un bar, nel quale beviamo un ottimo caffè e assaggiamo pasticcini artigianali che sanno di coccole, di altri tempi. Sedute ad un piccolo tavolo, iniziamo a raccontarci, a raccontare. E lo facciamo mentre torniamo indietro, mentre entriamo in studio e ci troviamo sedute l’una di fronte all’altra con le nostre storie, le nostre vite.
Il mio sguardo è continuamente catturato da dettagli estetici che mi affascinano. Un tavolo pieno di polaroid in ordine sparso, fotografie appoggiate ai muri, scaffali pieni di oggetti, foto, intrise di Maura.
Mentre la ascolto, mi rendo conto di aver già ottenuto le risposte alle domande che avevo scritto sul mio taccuino di Tiger, quello delle parole spontanee e senza deciderlo decidiamo di viaggiare in quelle stanze, facendo salti nel tempo all’indietro, in avanti, parlando di come vive le sue opere, dell’atto creativo e di quello commerciale, dell’esporsi fino al punto in cui non si debba esporre se non dietro le quinte.
Progetti di teatro, di nidi, di tarocchi, di libri in edizione limitata curati da lei con dovizia di paticolari, sugli scritti di Remmert, sfoglio quelle pagine e vorei avere dei guanti immacolati per toccare il bordo di ogni foglio, li sfoglio con cautela.
Su un muro, un frame di un video che ritrae le mani di sua nonna. Commovente, toccante.
Su un tavolo di legno con un cassetto socchiuso, centinaia di Polaroid che aspettano di esser scelte per un libro, tutte diverse, frames di vita, in cui persone ed oggetti si confondono in un disordine ordinato, meticoloso, casuale, ma che ha un senso.
il senso di Maura per le cose.
Poi scompare, e ricompare (dopo 10 secondi, o forse 30 minuti) con dei fogli bianchi immacolati, la sua treccia bruna che li accarezza, li stende su un tavolo, e poco alla volta emerge una foto che ritrae il suo viso nel gesto di ascoltare il rumore del mare in un conchiglia tra le sue mani. Un autoscatto. L’ascolto. Un ricordo dei nonni. E un progetto meraviglioso di shootings fotografici con persone che ascoltino anch’esse la propria conchiglia.
Maura osserva, Maura vede ciò che sarà.
Fumo una sigaretta e parliamo dei vegetariani, dei figli, delle cose e delle persone. Del caso che non esiste. Dei tarocchi come ispirazione estetica di un progetto unico e molto intimo. Nero, con tratti che appaiono e scompaiono alla luce.
I nidi. Resto in silenzio. I suoi nidi che raccolgono, che proteggono, piccole fragili case che sono indistruttibili se fatte di metallo, in cui ogni rametto sembra messo in un ordine meticoloso, che ne rispecchia la forma e il contenuto, oltre che il senso.
La scala che porta al nido, al cielo. La scala che unisce il cielo alla terra.
I lavori di Maura sono intensi e seguono solo un criterio: la sua ispirazione e la sua visione delle cose, come lei le percepisce e le vive. Solo questo. E seppur lei voglia stare dietro le quinte, ne esce in maniera forte non appena si entra nell’anima dei suoi lavori.
Il progetto era di intervistare Maura, invece l’ho vissuta, ho osservato le espressioni del suo viso mentre ragionava su un progetto futuro, ho visto come si illuminava parlando di progetti che la emozionano, ho vissuto cone lei nel suo studio 3 ore di lei.
E le mie domande poco alla volta si cancellavano, perchè ascoltandola capivo il suo lavoro, i suoi percorsi, il suo modo di vivere l’arte.
si parla sempre della solitudine in accezione negativa.
La solitudine come momento di presenza con se stessi, come intimo bisogno per ascoltarsi, è un’inesauribile fonte di ispirazione.
L’artista può trarre ispirazione dalla gente, dai luoghi, dai ricordi, ma deve raccogliersi per rielaborare suoni, colori, gesti e trasformarli in arte. In gesti d’arte.
L’intimismo di alcune opere, con piccoli dettagli quasi impercettibili, mi ha fatto immaginare il momento creativo, la solitudine più vera , imprescindibile per la creazione e l’elaborazione di un’opera.
Abbiamo rivalutato insieme la forza contrattuale ed energetica del baratto, la forza del caso, quello che non esiste. E per 3 ore ci siamo immerse nel suo mondo, nel quale il mio appariva a tratti, positivamente travolto dal suo, amalgamando vite ricordi visioni.
Un caffè d’altri tempi, quando ancora le persone provavano piacere nell’ascoltare. E il concetto di Maura del’ascolto è molto profondo e radicato in lei, parte della sua cultura, frutto dei suoi viaggi e di quella chiusura da cui non si vuole uscire, ma nella quale c’è sempre spazio per far entrare chi sa ascoltare.
Non è stata un’intervsta, ma la (ri)conoscenza di Maura Banfo attraverso il mondo emozionale delle sue opere.
Un lungo, profumato, caldo caffè avvolgente,intenso, in una stanza piena di Maura , come Alice nel paese delle Meraviglie. Una Alice contemporanea con le unghie smaltate di rosso, i capelli raccolti in un morbida treccia e la forza e l’intensità di un’artista che sa cosa vuole dire, e a chi.
Un caffè durato 20 anni. Grazie Maura
L.C.
Che bella descrizione di una artista Contemporanea
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Grazie Monica!
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